Psicologia tridimensionale: un computer per ridurre l’ansia e lo stress ricorrendo a realtà virtuali.
Ce ne parla la psico-oncologa Debora Muresu (Sbarro Institute of Philadelphia)
di Marina Carminati
Vi fareste rinchiudere in un ambiente ospedaliero da soli affrontando un esame medico complesso? Forse sì, se sapeste che si tratta di finzione, e magari potreste scoprire che non succede nulla e se un giorno vi capitasse di trovarvi realmente in quella situazione, sarete meno ansiosi e timorosi.
E’ la realtà virtuale di “second life” a permetterlo, strumentazione che non solo serve a intrattenere i più giovani davanti ai videogiochi ma può essere utilizzata anche per curare traumi mentali e fobie.
L’idea è recente: secondo la terapia convenzionale, lo psicologo chiede al paziente di immaginarsi faccia a faccia con le proprie ansie e paure. Con l’aiuto del computer invece oggi si può fare un salto di qualità e immergere il paziente nella situazione che genera la paura, il problema o la fobia. «La terapia è ancora in fase sperimentale – ha spiegato Debora Muresu (nella foto), responsabile sezione psico-oncologica del progetto di Digi S Lab diretto dal prof Antonio Giordano dello SHRO, Sbarro Institute di Philadelphia, aperta recentemente -, ma ha già dato i primi risultati positivi. Ci lavoriamo da circa un anno a questo progetto di psicologia tridimensionale. Si tratta di una nuova tecnica che ha il fine di ridurre l’ansia, lo stress oltre a trattare altre problematiche di natura psicologica in maniera risolutiva esattamente come la realtà virtuale permette di fare».
E’ così possibile affrontare, in un ambiente protetto come quello di uno studio clinico tridimensionale, problematiche che nella vita reale sono causa di problema.
«I pazienti che vorremmo trattare nella sezione di psico-oncologia insieme con il professor Giuseppe Russo, direttore esecutivo del progetto SHRO su “second life”, sono affetti da cancro. Attraverso un viaggio virtuale lo psicologo può accompagnare il paziente “step by step” durante gli esami clinici che dovrà affrontare realmente aiutandolo a superare la paura delle cure». In accordo a quanto sostenuto da Muresu, questo è importante perché da molti studi
si è visto che lo stress può sviluppare ormoni che possono essere la causa della velocità dello sviluppo del cancro. Il sistema immunitario può essere debilitato dall’ansia, così da non svolgere la sua normale funzione, causando l’aumento della malattia. «Nella realtà virtuale è possibile affrontare problematiche in maniera adattiva: ingannando i sensi, il soggetto riesce a rivivere quella esperienza in maniera attiva rispetto alla realtà. La realtà immersiva fa sì che il paziente abbia un ruolo attivo e adattivo abituandosi ad affrontare quella problematica di cui abitualmente soffre».
Il connubio tra realtà virtuale e psicologia nasce nel 1995 quando Larry Hodges, del Georgia Technology Institute, e Barbara Rothbaum, della Emory University School of Medicine, pubblicarono sull’“American Journal of Psychiatry” uno studio per curare l’acrofobia, ovvero la paura delle altezze. Da allora la sperimentazione si è diffusa, grazie anche al progressivo calo dei costi della sofisticata attrezzatura.
«Attualmente la realtà della ricerca statunitense – ha spiegato Muresu – si è buttata in questo campo realizzando programmi a scopo terapeutico anche per altri problemi di natura psicologica». Esiste per esempio l’aeroplano virtuale per chi teme di volare, l’audience virtuale per chi deve affrontare il pubblico, l’ascensore virtuale e così via. Il paziente viene posizionato
in piedi su una piattaforma con un casco dotato di display tridimensionale e audio in stereo.
Il display consiste di un monitor per ciascun occhio e dispone di un meccanismo in grado di raccogliere dati che vengono trasferiti al computer.
«I vantaggi sono diversi – ha spiegato la psico-oncologa -. L’analista detiene il controllo del grado di esposizione del paziente e in questo modo la terapia può essere più graduale. Inoltre il computer ci permette di registrare in ogni istante, durante la simulazione, i movimenti degli occhi del paziente e per esempio ascoltare il suo battito cardiaco, dando così una misura oggettiva delle reazione fisiche. Allo Sbarro Institute ci piacerebbe applicarla ai pazienti durante le fasi di chemioterapia, per provare a rilassarli attraverso immagini e contenuti che stiamo costruendo. Possiamo per esempio accompagnarli a fare una passeggiata o farli
trovare in un contesto gradevole mentre affrontano un esame medico».
Grazie alla realtà virtuale esiste infatti una maggiore libertà sia nella comunicazione sia nella rappresentazione del sé. E così comunicare in tutto il mondo superando la presenza fisica incontrandosi in un ambiente tridimensionale. La persona non vive la soggezione che può avvertire durante la terapia convenzionale e l’interazione può divenire più fluida. Inoltre i tempi di applicazione per questo tipo di terapia sono inferiori rispetto alla psicologia tradizionale: ci potrebbero essere risultati o miglioramenti nel controllo di ansia e stress durante la cura chemioterapica anche in soli 3-4 mesi.
«E’ bene sottolineare che questa tecnica non sostituisce completamente la terapia tradizionale ma può rappresentare uno strumento in più per noi psicologi – ha voluto precisare Muresu -. Confidiamo di migliorare sempre di più questa nuova tecnica che promette grandi risultati e applicazioni in diverse “malattie” di natura psicologica: stiamo sfruttando le più grandi tecnologie a nostra disposizione. In cantiere ci sono numerosi progetti in collaborazione con
diversi ospedali di New York e presto anche con altre strutture ospedaliere».
( INTERVISTA TRATTA DAL QUOTIDIANO ITALIANO “AMERICA OGGI” dell’ 11 gennaio 2009 – PUBBLICATO NEGLI STATI UNITI )
Link di riferimento:
http://biomedicine.ning.com/forum/topics/intervista-alla-dottssa-debora